Quei 50 minuti.
Ogni anno, da 13 anni ormai, arriva l’ultima ora in una classe che non so se rivedrò a settembre.
E non importa quante volte mi abbiano fatta incazzare, quante volte io abbia dovuto contare fino a dieci, quanti colpi alle coronarie abbia imparato a gestire perché sbagliavano un congiuntivo o si ribaltavano dalla sedia, quante lacrime abbia dovuto asciugare e quante scenate stile drama queen abbia dovuto improvvisare: negli ultimi 50 minuti dell’anno scolastico devo sempre trattenere un magone che mi pulsa in gola, fatto di una quotidianità che, nonostante tutto, mi mancherà.
Negli ultimi 50 minuti c’è chi ha quello stesso magone.
Chi vince ogni timidezza, viene alla cattedra e mi abbraccia.
Chi mi ringrazia.
Chi piange senza ritegno e chi singhiozza di nascosto.
Chi mi confessa che mi vorrebbe come mamma - non sai quel che dici, amico! - .
Chi spera di non rivedermi mai più nella vita.
Chi, giustamente, se ne sbatte e pensa già alle vacanze.
E io sto lì a godermi tutto questo, perché è quello che ho scelto di essere e riconosco il mio privilegio.
Ogni anno cresco un po’ con loro, a scuola insegno e imparo e vivo.
In quei 50 minuti ci siamo solo loro ed io, senza interferenze di genitori, colleghi, burocrazie, scadenze, ansie, riforme, maldicenze su scuola e insegnanti.
Ogni anno, quei 50 minuti fanno malissimo, ma sono anche la ricompensa che mi restituisce la certezza di aver fatto, 13 anni fa, la scelta più azzeccata della mia vita.

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